Dove andrò a parare, dove andremo finire

O della riconquista del sentimento della ragione, dell’amore

Anna Coluccino
13 min readJan 9, 2021

Dato il titolo, mi auguro non v’aspettiate una trattazione compatta e analitica, che parte da premesse, esamina contraddizioni e procede chiara e spedita verso una sintesi. Per procedere in modo simile occorre una vasta competenza degli argomenti di cui si tratta. Ma qui gli argomenti sono irrazionale e razionale, amore e disperazione. Non se se esiste qualcuno che ne sappia a sufficienza per parlarne ordinatamente. Qualcuno ci sarà certamente. Io no. Ne parlo lo stesso, però. Ne parlo per necessità, come mi viene, per completare un discorso cominciato mesi fa e che, come altro nella vita, avevo lasciato inconcluso.

In matematica, l’irrazionale corrisponde a ciò che è incommensurabile e comprende anche ciò che è trascendente. Di per sé, quindi, il fatto che un evento sfugga alla comprensione e alla misura non è male, non è detestabile e -anzi- rilancia all’infinito il gioco della vita. In ambito umano, e quindi sociologico e psicologico, l’irrazionale è invece ciò che non ha ratio, quel che non ha proporzione e misura, qualcosa che può essere ritenuto sconsiderato perché incurante delle sconvenienti conseguenze che innesca. Per estensione, sono quindi portata a ritenere irrazionale, in senso deteriore, tutto quanto viene fatto senza che ne venga nulla di buono per alcuna delle persone coinvolte. Eppure, non mi pare questo il modo in cui -generalmente- il termine viene inteso. Quando si dice che gli esseri umani sono irrazionali solitamente s’intende che agiscano seguendo l’istinto, l’emozione invece che la ragione. Il che determina almeno due false deduzioni: ritenere che sempre e comunque la ragione porti a conquiste più elevate, preferibili a quelle che sono raggiungibili con l’emozione; ritenere che sempre e comunque ragione sentimento siano cose diverse e, per lo più, in opposizione.

Come che sia, io non trovo che dare prevalenza all’istinto sia, di per sé, irrazionale, non in senso deteriore almeno. Soprattutto, non trovo la cosa detestabile né auspico una sua eliminazione, temo, piuttosto, una sua cancellazione a favore di una supposta esistenza razionalizzata, una sorta di incubo huxleyano in cui tutto è asettico, sterilizzato, scorporato, virtualizzato e ogni emozione, ogni sentimento, ogni incontro è spostato su di un piano irreale cui si accede tramite droghe o congegni vari.

Mi chiedo se l’avere pensieri simili certifichi il mio essere, ormai, invecchiata. Può darsi. Fatto sta che da ciò che molti nominano e derubricano a irrazionale credo dipenda una buona parte della pura gioia che ci è dato provare nella vita. Il godimento cui accediamo per il tramite di droghe e alcol, se svincolato dalla carne, dal materico contatto con le cose del cosmo -fatte di menti e corpi- è di natura diversa, più vicina all’estasi del morire che del vivere, più prossima all’esalazione che esaltazione. Quello che definiamo irrazionale, infatti, spesso non è altro che la rottura di uno schema, un atto creativo che consente di fuoriuscire da una routine autodistruttiva. Comoda perché nota, facile perché ripetitiva e prevedibile, ciò nondimeno mortifera.

Quel che chiamiamo “ragione”, infatti, il più delle volte non è che una teoria sul mondo, o su un particolare aspetto del reale, ben lontana dall’essere provata una volta per sempre e, spesso, del tutto insensata se applicata in termini assoluti, non situati nello specifico di un qui e ora: è solo qualcosa di cui siamo convinti e che pensiamo sia razionalmente più giusto fare sempre, a prescindere. Spesso, corrisponde a ciò che vediamo fare agli altri (o meglio: agli altri del nostro gruppo, quelli che riteniamo sani, ammirevoli, esperti e ben adeguati). In questo caso, quel che è considerato ragionevole è solo conformista. Altre volte coincide con ciò che “gli altri non hanno il coraggio di fare”, in tal caso quel che ci pare ragionevole si fossilizza su un’idea statica e standardizzata di anticonformismo. Il risultato non cambia. Quel che pensiamo essere ragionevole è solo un’azione automatizzata cui il nostro cervello si è abituato a prescindere dalla sensatezza e dalla desiderabilità del risultato finale, perché ama faticare poco e preferisce prendere scorciatoie, evitando di ridiscutere tutte le volte il percorso di pensiero atto a decidere il gesto più adeguato a una data situazione. La situazione pare simile a una già nota? Allora si procede come sopra. Capita spesso di confondere un’azione meccanica con un’azione razionale.

Poniamo il caso che una nostra teoria sul mondo ci induca a credere che sia razionale fare figli (o non farne); o che sia razionale fare di tutto per tenere insieme una famiglia (o fare di tutto per evitare di costruirne una); o che sia razionale disinteressarsi (od occuparsi attivamente) della politica cittadina. Qualunque ragione, non importa quale, possiede un potenziale di insensatezza che si manifesta tanto più violentemente quanto più forziamo la nostra quotidianità in una teoria rigida e preconfezionata invece di continuare a metterla alla prova, misurandone l’efficacia sulla base delle realtà contingenti, sia interiori che esteriori (entrambe mutevoli, seppur con intensità diverse a seconda dei caratteri degli individui e delle epoche).

Personalmente, trovo molto divertente pronunciare frasi come “non farò mai”. Lo faccio ancora, ma sempre ridendo e subito aggiungendo: chissà quanto ci metterò, stavolta, a smentirmi. Se a vent’anni potevo essere convinta, almeno superficialmente, di star pronunciando sentenze finali riguardo chi ero e sarei stata, a quarant’anni so che, per come sono fatta, è impossibile che io possa decidere, oggi, cosa farò e non farò, dirò e non dirò, penserò e non penserò da qui alla fine dei miei giorni. Buona parte delle cose che sostenevo che non avrei mai fatto le ho fatte, poi. Perché non ci riesco ad essere fedele alle teorie al di sopra degli eventi e dei sentimenti. Così come finisco sempre per essere infedele ai gruppi e, forse, anche alle persone, specie se si ostinano a farsi un’idea di me incapace di misurarsi con l’evidenza di una mutazione costante, pur se non improvvisa e radicale. Un’ostinata coerenza è sempre stata, per me, sinonimo di ottusità. Se s’intende provare a capire quante più cose ci è possibile del mondo, svelando momentanee verità, essere smentiti vale più del vedersi confermate le solite certezze. Inoltre, essere davvero coerenti con sé stesse significa accettare che un sé autentico è inafferrabile, non si edifica, si rincorre. Il massimo che si possa fare è tentare di trovare sparute e incerte costanti all’interno delle successive mutazioni, identificare nodi essenziali che testimonino l’esistenza di una ghianda, di una vocazione, di un’entità primordiale che resiste a dispetto di tutto. Ma questo non ha nulla a che vedere col costruire muri a protezione di una ragione, di un’idea, preservandola pura, incontaminata e completamente dissociata dal reale, tale e quale alla prima volta che l’abbiamo incontrata, pensata e creduta vera.

Una teoria sul mondo, valida oggi, stante il poco che so e fondata su ciò che esperisco e sento ora, sarà valida tra un mese, tra un anno o dieci? Come faccio a saperlo adesso? Posso azzardare una previsione statistica e dire che, sulla base di quel che ho capito di me e del mondo, è molto probabile o poco probabile che cambi quella certa idea. Nulla più di questo. Quindi, dire che si agisce razionalmente quando si ripropone stolidamente lo stesso schema di pensiero ed azione -schema che si era rivelato funzionale ma che avevamo elaborato in una situazione diversa da quella attuale, in un momento in cui si provavano sentimenti diversi e si esperivano sensazioni che fatichiamo persino a ricordare- significa dire una sciocchezza e agire, al contrario, in modo irrazionale, e quindi lesivo per sé e chiunque altro. Tenere fede a un modello di comportamento anacronistico non è più razionale che prendersi a frustrate perché i nostri pensieri impuri avrebbero offeso Dio.

In quest’ottica, è irrazionale urlarsi in faccia, sputare veleno, stare male facendo star male, determinando una perdita generale di benessere e contentezza. Irrazionale è stare in una relazione in cui ci si disprezza, in cui la sola presenza dell’altro innesca una perenne inquietudine, figlia della sensazione d’inadeguatezza in cui lo sguardo altrui ci piomba, nonché della percezione di condividere lo spazio con un corpo estraneo e intimo allo stesso tempo. Irrazionale è persistere in questo stato perturbato o, meglio, nell’Unheimlich (come si dice nella lingua che ha una parola per dire ogni cosa e che, forse per questo, fatica ad accettare l’indefinito e ad abbracciare il mistero).

Razionale è amare e soffrire un’assenza. Razionale è baciarsi, toccarsi, godendo e facendo godere, in un’ottica di perdita bilaterale di malessere e tristezza. Razionale è innamorarsi in cinque minuti o amarsi per una vita intera. Razionale è tutto quanto rende tutti più contenti o ciascuno meno cupo. Irrazionale è un gesto che impoverisce chiunque e tutti piomba nella depressione.

Per questo la nostra è una società irrazionale fatta di individui irrazionali che coltivano relazioni irrazionali e si tramandano storie irrazionali. Non perché sia una società preda di istinti irragionevoli, il contrario. Non credo sia esista una società meno istintiva della nostra, mi pare invece guidata da pensieri iper-razionalizzati e, insieme, irragionati; pensieri sovrimposti e sovrascritti al reale -non dedotti da esso- idee memetiche tramandate e ingerite senza alcuna riflessione perché nel darci ragione, nel confermare i nostri bias cognitivi, ci consolano anche se, nei fatti, ci condannano a un’esistenza disperata e priva di futuro. Ognuno si crede portatore sano e unico di verità innegabili e sconosciute ai più. Ciascuna è immerso nella propria missione e votata a diverse professioni di fede al cui fondo -per diverse che siano- si trova il seguente, uguale assunto: il mondo fa schifo e ha sempre fatto schifo, la vita pure, l’umanità non ve lo dico proprio. E non dico che sia vero l’opposto, dico che le cose sono complesse e varie e che un pensiero paranoico, ossessivo e incompromissorio come quello sopra espresso ha scarse possibilità di aderire alla realtà delle cose ed è molto più probabile che sia frutto di narrazioni dominanti deviate che hanno finito col plagiare miliardi di menti umane. Al termine di quasi tutte queste visioni, per di più, non esiste alcuna pace o salvezza -personale o collettiva- solo dannazione e, in qualche caso, l’estinzione. Viviamo in una società vacante che produce e consuma infelicità, che genera dolore, amplifica angoscia e malessere e si racconta che la disperazione è l’unico sentimento autentico che si possa avere nei confronti della vita, che il massimo cui si possa aspirare è l’atarassia, il piacere catastematico. Tutto il resto è falso, illusorio, una favola della buona notte per bambini fifoni e frignoni. Ogni giorno, da ogni parte, ascoltiamo, leggiamo e andiamo ripetendo che tutta questa sofferenza è necessaria, inevitabile, sovradeterminata da una tara specie-specifica e da un sistema inarrestabile. Si può solo resistere. In vista di che, di quale conquista? Non si sa. Resistere per resistere. Perché non abbiamo niente di meglio da fare e l’alternativa è morire.

Siamo abituate a pensare sentimento e ragione come antinomi puri; come se nel sentimento fosse insita l’irragionevolezza e nella ragione l’insensibilità. Millenni di cultura monomitica ci avevano anche convinte che questa dicotomia corrispondesse pari pari al sistema binario donna/uomo, dove la prima sarebbe stata travolta dal turbine dei sentimenti e il secondo tutto preso dalle logiche della ragione, tanto che all’una erano impedite le prospettive lucide e realistiche e al secondo il calore, l’empatia e l’irruenza dei sentimenti.

Ora, chiunque conosca un ragionevole numero di donne, di uomini e, magari, qualche persona non-binaria saprà che così non è e che se un tempo così pareva era perché i non conformi tendevano a conformarsi, quantomeno nella vita pubblica, sì da non avere rogne o da essere marginalizzati, quando non confinati in istituti carcerari o psichiatrici, oppure ammazzati.

Tanto per cominciare, per sciatteria mista a bisogno di semplificazione, tendiamo a confondere emozione e sentimento. Laddove l’una è immediata, povera di filtri cognitivi e analisi intellettuali, corrisponde e consuona con ciò che si avverte nello stomaco di fronte a un qualunque fenomeno, l’altro è il risultato di un dialogo interiore tra quelle emozioni primitive e le successive reazioni cognitive. L’emozione è pregna di ciò che tocca il nostro corpo all’istante, che entra nel naso, che è inspirato dalla pelle, il sentimento è fatto di pensieri in forme di parole, tanto che per molte sarà vero quel che è vero per me e che Erica Jong ha meravigliosamente sussunto in poche e semplici frasi:

Io ho sempre tenuto nella massima considerazione le parole e ho fatto spesso l’errore di credere più nelle parole che nelle azioni. Il mio cuore (e la mia figa) sono in vendita in cambio di una frase concisa ed espressiva, di una buona battuta, di due versi deliziosi o di un paragone sensazionale.

Prendiamo il sentimento che ci pare il più potente di tutti: l’amore. Nessuno prova istintivamente e al primo impatto un’emozione d’amore. Può sentire la gioia, il trasporto, il desiderio, la passione ma non l’amore. Per amare occorre, prima, innamorarsi, vale a dire avviare il dialogo tra quegli organi interni che sono i più popolati dai neuroni: lo stomaco e il cervello. Occorre che ci si dica delle cose, prima. Sebbene possa portare a gesti apparentemente irrazionali, il sentimento dell’amore è la cosa più razionale che ci possa capitare di provare. L’amore è parola, un po’ come dio nella cultura ebraica. Eros è logos prima ancora che thanatos, cui pure è legato. Visto dall’interno, l’amore discorre, mette tutto in ordine, ogni cosa fluisce, con impeto, certo, ma limpidamente. I dubbi si sciolgono, le remore non tengono, ogni cinismo è pura facciata: l’evidente maschera della paura di credere a quel si sente. Gli eventi assumono l’aspetto della predestinazione. Ogni accadimento appare sensato, ogni azione commisurata all’enormità del sentimento che si prova e consegue all’altra logicamente: tutto pare proprio lì dove avrebbe dovuto essere. Chi ama si sente vocato ad amare quella persona in quell’istante, non un’altra, non prima o dopo, sa che è lì che doveva trovarsi e non un centimetro oltre. Si tratta chiaramente di pensieri irragionevoli, ma possiamo dire che siano insensati, irrazionali? Sono invece del tutto sensati. Vengono, anzi, inesorabilmente sensati -orientati e riempiti di significato- in modo semplice e immediato, efficace e inappellabile. Si vive in uno spazio surreale e, insieme, iperreale. Ci si sente immersi nel tutto e al di sopra di tutto, dentro e fuori, contemporaneamente onnipotenti e impotenti insieme. Solo nella ragione è possibile trovare l’amore. Solo degli esseri razionali possono innamorarsi. Solo dei parlesseri possono compenetrarsi. Certo che è extra-ordinario, ma come possiamo pensarlo irrazionale? Il fatto che siano sensazioni sfuggenti e fuggevoli, legate a subbugli ormonali, intessuti a trame psichiche e sociali fatte di traumi e perversioni, blocchi e idealizzazioni, il fatto che tutto possa essere spiegato in termini chimici ed esplicitato in analisi psicologiche, che sia ammalato e ingigantito dalle chiacchiere il fatto -insomma- che si trovi una descrizione più o meno scientifica del come accade l’amore ha mai cambiato l’esperienza dell’amore? A giudicare da quel che ho imparato fino a oggi, direi di no. Forse proprio in virtù dell’incapacità che ho di sovrimporre le teorie ai fatti, le mie ragioni e le mie teorie alla realtà delle cose e delle emozioni, tutto quello che ho imparato sull’amore -sulle sue dinamiche storiche, neurali, ormonali, sociali e psicologiche- non ha cambiato di uno sputo il mio modo di sentire l’amore, non ha diminuito di un briciolo la potenza della passione che provo né eliminato una virgola dal mio desiderio d’amare ed essere amata.

Non so proprio dire da dove arrivi l’idea che l’amore scompigli tutto, forse dal giudizio che ne danno quelli che l’osservano da fuori senza essere coinvolti, o più probabilmente dal ricordo che resta dell’amore finito. Perché agli occhi delle persone che amano tutto appare incredibilmente chiaro e netto, ovvio: devo fare così, dobbiamo comportarci colì, questo è quel che ci aspetta, quello è ciò che vogliamo. Il grigio, la confusione, l’incertezza possono fare da sfondo all’amore -pronti a conquistare il proscenio poco dopo, nel momento in cui l’amore è vinto dall’assedio di tutto quanto amore non è, quando viene circondato dalla paura di perdere sé stessi o l’altro o entrambi o tutto quanto è fuori dal groviglio amoroso e preme per non essere dimenticato: il dovere- ma non riguardano direttamente l’amore. Solo dopo emergono dagli abissi, mettono l’amore alla sbarra e lo rivestono di dubbi, quasi sempre uccidendolo. Talvolta, si resta insieme anche dopo l’assassinio, a vegliare il cadavere, per lo più in silenzio, incapaci di seppellirlo nonostante la puzza renda sgradevole persino una normale respirazione; per cui ci si abitua a respirare poco e piano, per non disturbare il morto. Questo è irrazionale, non l’amore in sé. Nell’istante dell’amore, che raramente dura più di un attimo, la forza che si sente è tale da illuminare ogni percorso interiore, la percezione del mondo è cristallina e il bene che sentiamo e che diamo rende difficile credere che esista un’azione più ragionevole di quella d’amarsi ogni volta che è possibile, più che si può. Seppure intellettualmente si sia persa ogni fiducia nella durata e nella profonda verità del sentimento, è il corpo a imporre una fede d’istinto anche al più scettico degli esseri, mostrando in tutta evidenza il miracolo dell’estasi che scaturisce dal contatto di pelli umide d’umori in cui si dissolvono i confini di chi sono e di chi sei, si mescolano, disperdendo le identità e finendo davvero con l’incidere un’impressione d’eternità in fondo a ogni orgasmo. Non è vero, non dura ma ci si crede, perdutamente e completamente.

L’amore svanisce, però, mentre la frustrazione del non-amore ci marchia a fuoco, perché l’estasi d’amore non è un sentimento individuale mentre la disperazione del non-amore sì. Perciò è un sentimento che ci pare insopportabilmente falso, una menzogna architettata per sopportare l’unica cosa vera: l’orrore del vivere. In una società che ci ha lavato il cervello a forza di storie che raccontano che solo ciò che è male e che fa male è vero, che solo la sofferenza è reale, quale spazio credete ci sia per la ragione d’amore? In una società che ingurgita psicofarmaci ripetendo che i soldi e il successo sono ciò che resta mentre l’amore passa, che l’altro è l’inferno, che nulla ha senso e ogni bellezza è un inganno, come potevamo eludere la psicosi di specie da cui siamo afflitti? Come potevamo sfuggire l’agire irrazionale nel senso di un autolesionismo generalizzato?

Una volta, mentre mi stavo innamorando, l’uomo che per un attimo mi ha amato mi ha chiesto cosa vuoi? Quel che gli risposto è stato voglio essere eterna. La sua era una domanda erotica e la mia poteva sembrare una risposta retorica, filosofica, fuori contesto. Ne rimase colpito. A distanza di tempo, ancora la ricordava. Non credo l’abbia capita fino in fondo, comunque. Non avrebbe potuto perché è uno di quelli che crede che l’umanità sia bruta e senza speranza e che sia ingenuo e pericoloso vivere fingendo che gli esseri umani siano persone degne di compassione e comprensione, capaci d’amore. E se pure sia lui a predicare di credere nell’amore e io quella che afferma di non crederci, non sapeva amare, non poteva, come non può chiunque si disprezzi al punto da odiare tutto e tutti. Amare, invece, è tutto quanto io so fare, tutto quanto faccio e voglio fare da che sono al mondo. Per questo piango così tanto. E sono incostante. E mi innamoro di tutto. E sembro sempre piena di vita e di morte insieme. Per questo mi pare di non fare, non dare e non avere mai abbastanza, specie in un momento in cui mi è precluso quasi ogni contatto umano. Amo nonostante il mio cervello non creda all’esistenza dell’amore. Proprio perché non ci credo, ho un corpo che vive alla ricerca continua di testimonianze, che urla il bisogno di farne esperienza radicale.

L’amore rende eterni anche quelli costretti a morire. Se solo tornasse ad amare e ad amarsi, forse pura una specie intrappolata nell’eterno ritorno saprebbe trovare una via che le restituisca il futuro.

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